Pap Khouma è uno scrittore di origine senegalese. I suoi romanzi sono un invito a riflettere su migrazioni, identità e métissage culturel.
Le migrazioni internazionali attraversano la storia del Senegal sin dall’inizio del secolo scorso (Tall, 2008) e, sebbene i flussi provenienti dal Senegal si contraddistinguano per la forte eterogeneità dei profili migratori, è indubbio che essi abbiano, almeno fino alla prima metà degli anni Settanta, significativamente interessato la Francia. Essa ha di fatti visto il susseguirsi di numerose generazioni di migranti senegalesi, composte prima dai tiratori congedati al termine della Seconda Guerra Mondiale e dai marinai manjjack e soninke, poi dalla popolazione originaria della Valle del fiume Senegal e reclutata come mano d’opera nell’industria automobilistica francese (ibidem). Nel tuo primo romanzo, Io venditore di Elefanti. Una vita per forza tra Dakar, Parigi e Milano pubblicato per la prima volta nel 1990, racconti con grande lucidità il tuo percorso migratorio, il cui avvicendamento attraversa la Francia e Parigi: “Eccomi alla scoperta di Parigi, la capitale dell’impero. L’Arco di Trionfo è magnifico, ma un senegalese immigrato vive in periferia e non è un gran bel vivere. Sporco, pioggia, freddo, facce cattive o, se va bene, indifferenti: questa sarà la zuppa di tutti i giorni” (Khouma, 1990). La capitale francese, per decenni destinazione privilegiata dei migranti senegalesi, è descritta come una città dura e amara, da rifuggire: cosa era cambiato nella métropole?

Pap Khouma
La Francia e il Senegal sono legati dal XVII° secolo. I francesi avrebbero fondato la città di Saint-Louis nel 1659 [1]. Per risollevare la sua economia dopo le carneficine delle due Guerre Mondiali, la Francia ha reclutato mano d’opera nelle sue colonie. Le torri dei quartieri periferici sono state infatti progettate per ospitare questi lavoratori nel corso di un soggiorno immaginato di breve durata. Si pensava che essi sarebbero ritornati a casa, in Africa, dopo avere concluso il periodo lavorativo; al contrario, sono seguiti i ricongiungimenti familiari, la nascita dei figli e la loro scolarizzazione. Tuttavia, nel 1973, dopo la prima crisi petrolifera, la Francia ha adottato e promosso politiche severe e restrittive in materia di immigrazione. Ma è difficile cancellare secoli di storia con delle leggi: il francese è ancora la lingua ufficiale del Senegal e i senegalesi – legati all’ex paese colonizzatore da sentimenti di amore e odio – si recano tutt’oggi in Francia per completare gli studi, lavorare, farsi curare. Io sentivo parlare della Francia e di Parigi in famiglia e attraverso i libri di testo. Sono stato per la prima volta in Francia tra il 1984 e il 1985, durante i mesi invernali. Volevo scoprire Parigi, il cuore dell’ex impero, ma vi ho vissuto male, anche se per poco tempo. Anni dopo, mi sono reso conto che non è stata colpa dei parigini o dei senegalesi residenti. Ero lì senza un progetto. Non sopportavo il freddo.
Le migrazioni internazionali rappresentano un elemento largamente presente all’interno della produzione letteraria senegalese. L’Ambigua avventura, primo romanzo del celebre scrittore Cheikh Hamidou Kane pubblicato nel 1961, è ormai un classico della letteratura africana dedicata al tema della migrazione. Il protagonista Samba Diallo, nato nel paese dei Diallobé in una nobile famiglia fulbe, istruito all’ombra di un severo apprendimento del Corano e emigrato verso la métropole parisienne per frequentarvi le sue università, abita ancor oggi gli immaginari collettivi come il personaggio letterario che meglio incarna le sofferenze ereditate dal contatto coloniale e dall’esperienza migratoria. Le parole che Kane attribuisce al personaggio principale del suo romanzo evidenziano le angosce di un giovane studente africano alle prese con lo sconvolgimento culturale, le incertezze identitarie e i processi di ibridazione in un tempo ancora segnato dal dominio coloniale: “Si dà il caso che alla fine del nostro viaggio noi siamo catturati, vinti dalla nostra stessa avventura. Ci rendiamo conto, d’un tratto, che, lungo il cammino, una continua metamorfosi è avvenuta in noi, e siamo diventati degli altri. Talvolta, la metamorfosi non si compie del tutto, ci fermiamo nell’ibrido e così ci lascia. Allora ci nascondiamo, pieni di vergogna” (Kane, 1979). L’avventura di cui è protagonista Samba Diallo introduce, tra i tanti, il tema del métissage culturel, dei suoi rischi e dei suoi aspetti disorientanti. In quale misura l’esperienza coloniale incide sulla visione dell’autore rispetto a questo specifico tema?
Samba Diallo, il protagonista del romanzo di Kane, è stato mandato in Francia per completare gli studi. Era l’epoca della colonizzazione e la scuola francese era il luogo ideale per “formattare” le menti dei giovani africani e per consolidare la sua “missione civilizzatrice”. L’autore de L’Ambigua avventura fa parte della generazione di africani recatisi in Francia per studiare. Ad eccezione di quanto accadeva per i cittadini originari di Saint-Louis, Rufisque, Dakar e Gorée – i cosiddetti “Quattro Comuni” del Senegal -, la cittadinanza francese veniva negata alla maggioranza degli africani colonizzati, i quali, dal Senegal al Congo, imparavano a scuola che i loro antenati erano i Galli. L’impatto con la Métropole era alienante per i nativi di Saint-Louis, Dakar, Abidjan o Brazzaville e il colonizzatore francese non aspirava al métissage culturel: il rapporto di subalternità tra dominante e dominato imponeva a tutti i Samba Diallo l’assimilazione totale nella cultura francese.
Il tema del métissage culturel si mostra anche nei tuoi romanzi, in particolare in Nonno Dio e gli spiriti danzanti (Khouma, 2005) e in Noi italiani neri (Khouma, 2010) attraverso la narrazione di storie e vicissitudini, tanto fantastiche quanto reali, che percorrono lo spazio della ricomposizione, della maturazione e della rivendicazione identitaria. Se il primo narra – attraverso il racconto di un viaggio nella terra d’origine – i vacillamenti identitari di un giovane immigrato che fatica a coniugare il suo presente europeo e il suo passato africano, il secondo Noi Italiani Neri evidenzia la preziosità di una nuova forma identitaria, quella che accompagna i giovani italiani con background migratorio. Come evolve il tema dell’ibridazione culturale all’interno dei tuoi romanzi e in che misura essa è influenzata dalle trasformazioni culturali e socio-demografiche che hanno interessato e interessano l’Italia?
Prima di lasciare il Senegal possedevo una pluridentità linguistica e culturale, ero cosciente di essere ibrido. Quando sono venuto a vivere in Italia, sapevo a priori che avrei subito dei mutamenti identitari. Nei miei romanzi e racconti, rifletto soltanto sugli aspetti della pluridentità, evitando di cadere nelle trappole del relativismo culturale. I protagonisti dei libri che hai citato, Nonno Dio e gli spiriti danzanti e Noi italiani neri, sono infatti nati da matrimoni tra senegalesi e italiani, sono figli adottati cresciuti in Italia, sono senegalesi residenti qui e sposati con italiane. Gli scambi e le trasformazioni culturali sono inevitabili e le identità – individuali o collettive che siano – assumono contorni plurali e dinamici. A mio parere, l’ibridità è il risultato del métissage culturel e, in questo senso, essa non determina smarrimento o perdita identitaria, ma, al contrario, valorizza la multidimensionalità dell’identità.

André Derain, Arbres à Collioure, 1905
La società di oggi sembra essere attraversata da spinte opposte: se da una parte crescono i movimenti sovranisti e xenofobi, dall’altra molte voci si levano in difesa dei diritti e a favore di una società aperta e libera dai pregiudizi. In un simile contesto, quale futuro per il métissage culturel?
La difesa ad oltranza dell’identità nazionale, urlata dai sovranisti europei, è opportunismo politico. Forse potrebbe realizzarsi adottando i metodi dell’Albania di Enver Hoxha ai tempi della guerra fredda, nonostante nel paese abitasse una popolazione resa ibrida dai tanti rapporti stretti nel corso della storia con altri popoli. Il regime di Hoxha aveva infatti chiuso ermeticamente i confini, aveva vietato l’ingresso e l’uscita tanto ai cittadini quanto agli stranieri e aveva tagliato i rapporti commerciali e diplomatici con quasi tutti i paesi del mondo. Invadendo territori e colonizzando popoli, la Francia è diventata progressivamente, volente o nolente, una nazione ibrida. In Italia, fino a qualche anno fa, alcuni politici rivendicavano la separazione delle regioni del nord da quelle del sud: l’emigrante napoletano, calabrese, pugliese o siciliano era considerato fannullone, furbo, pericoloso e la città di Roma era il nido dei nemici dei “popoli del nord Italia”. Oggi, gli stessi politici hanno stretto alleanze con movimenti di estrema destra (romani, meridionali) che considerano inviolabile l’unità del territorio nazionale. Il nemico comune dei sovranisti italiani e dei loro alleati è l’immigrato, soprattutto l’africano. Esistono delle voci in difesa dei diritti e a favore di una società aperta, ma sono flebili, timorose di essere accusate di svendere l’“identità nazionale”. I sovranisti non ignorano che l’Italia sia uno dei paesi più ibridi d’Europa e che gli italiani siano culturalmente meticci da un tempo che precede di molto l’arrivo dei migranti. I Romani hanno conquistato la penisola e si sono mescolati con i “barbari” di mezzo mondo. Per secoli, Galli, Greci, Goti, Vichinghi, Normanni, Saraceni, Berberi, Iberici e Africani si sono insediati all’interno degli stessi territori. Persino la lingua italiana, che deriva dal latino, porta con sé locuzioni greche, arabe, berbere, turche e persiane. Ancora, locuzioni italiane sono presenti anche in altre lingue del mondo, in quelle africane comprese.
Bibliografia
Kane, Cheikh Hamidou, L’Ambigua avventura, Editoriale Jaca Book, Milano, 1979;
Khouma, Pap, Io venditore di elefanti. Una vita per forza tra Dakar, Parigi e Milano, (a cura di Oreste Pivetta), B.C. Dalai Editore, 1990;
Khouma, Pap, Nonno Dio e gli spiriti danzanti, B.C. Dalai Editore, 2005;
Khouma, Pap, Noi italiani neri, B.C. Dalai Editore, 2010;
Tall, Serigne Mansour, «La migration internationale sénégalaise: des recreutements de main-d’oeuvre aux pirogues», in Le Sénégal des Migrations, a cura di Momar Coumba Diop, Éditions Kathala, ONU-Habitat et CREPOS, 2008.
[1] Fonti marocchine rivelano che nel XII° secolo Saint-Louis, o Ndar in lingua wolof, faceva parte dall’impero almoravide, che includeva l’attuale Mauritania, il Marocco, il sud del Portogallo fino a Lisbona e l’Andalusia. Gli abitanti di Saint-Louis sono diventati cittadini francesi nel 1792, ben prima degli abitanti di Nizza (1860). Soldati senegalesi hanno combattuto e sono caduti per la Francia durante le due Guerre Mondiali, le guerre d’Indocina e d’Algeria.