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Lockdown e confinamento dei migranti: Le contraddizioni del trattenimento nella pandemia Covid-19

I Centri per il rimpatrio, istituiti ormai più di vent’anni fa con il D.lgs. 286/1998 (TU Immigrazione), sono le strutture destinate al trattenimento delle persone migranti rintracciate in condizione di irregolarità sul territorio – o alla frontiera – e destinatarie di un provvedimento di espulsione. Il trattenimento è una misura amministrativa di limitazione della libertà personale che formalmente non ha natura sanzionatoria ma mera ente strumentale all’esecuzione dell’espulsione. Nel 2015 è stato riformato il trattenimento dei richiedenti asilo, fondato su presupposti in parte diversi dai migranti “irregolari”, tra cui nella prassi il più frequente è la valutazione della domanda di asilo come strumentale a impedire l’esecuzione del provvedimento di espulsione[1]. Il trattenimento è disposto dall’autorità di pubblica sicurezza e dev’essere confermato – secondo uno schema analogo alla convalida dell’arresto – dall’autorità giurisdizionale competente: il Giudice di Pace in via ordinaria, il Tribunale civile per i richiedenti asilo. A seguito della riforma del 2018 – il primo “decreto sicurezza” – il trattenimento dei migranti “irregolari” può durare fino a 180 giorni, per i richiedenti asilo può arrivare fino a dodici mesi. Attualmente in Italia sono attivi nove Centri per il rimpatrio, di cui Roma Ponte Galeria è l’unico con una sezione femminile. 

Hotspot di Lampedusa – ActionAid

Nel contesto della pandemia covid-19, i Centri per il rimpatrio (Cpr) sono divenuti luoghi ancora più impenetrabili. Gli enti anti-tratta e le organizzazioni indipendenti hanno interrotto le proprie attività a marzo, i contatti con gli avvocati sono stati limitati e l’utilizzo dei telefoni cellulari vietato. Nel Cpr di Ponte Galeria, per esempio, l’ultimo ingresso di un’organizzazione indipendente risale ormai al 21 marzo. Così, mentre la questione veniva del tutto occultata nel dibattito pubblico e mediatico dell’emergenza, le poche informazioni sulla situazione delle persone trattenute hanno circolato per settimane soltanto attraverso canali informali non verificabili. D’altro canto, lo stesso Governo ha a lungo ignorato la questione, così come ha cercato di ignorare la situazione delle carceri esplosa poi nelle rivolte in cui sono morti almeno 14 detenuti. Soltanto il 26 marzo, infatti, il Ministero dell’Interno è intervenuto con una circolare intitolata “Interventi di prevenzione della diffusione del virus COVID-19 nell’ambito dei centri di permanenza per il rimpatrio”.  

Cpr di Palazzo San Gervasio (PZ) – Paolo Caprioglio

Chi si aspettava provvedimenti volti a decongestionare i Cpr e a garantire la salute delle persone trattenute è rimasto però deluso. Nonostante diversi Paesi europei abbiano disposto la liberazione dei migranti dai centri di detenzione, e nonostante i richiami delle organizzazioni internazionali, il Ministero non solo ha confermato il funzionamento del sistema detentivo ma ha peggiorato la condizione delle persone in stato di trattenimento. Con la scusa dell’emergenza, la circolare ha infatti esteso a tutto il territorio nazionale il divieto di utilizzo dei telefoni cellulari nei Cpr, una prassi finora vigente di fatto solo in alcune strutture come la sezione maschile di Ponte Galeria. Il divieto di comunicare con l’esterno, di accedere a internet e ai social network alimenta inevitabilmente il senso di isolamento da parte delle persone trattenute e la percezione che il trattenimento sia una misura essenzialmente punitiva. Per quanto riguarda, infine, la tutela della salute dei trattenuti, la circolare si è limitata a indicare misure di monitoraggio e prevenzione sanitaria tanto vaghe quanto inapplicabili in strutture, come i Cpr, in cui non è possibile applicare il distanziamento sociale e che non garantiscono le condizioni igienico-sanitarie minime neppure in tempi ordinari. 

Una comunicazione del Garante dei detenuti del 24 aprile indica in 259 le persone trattenute attualmente nei Cpr italiani (contro le circa 650 di inizio emergenza), e in 32 i nuovi trattenimenti disposti da metà marzo a metà aprile. Nonostante il trend decrescente, tutte le strutture detentive sono ancora in funzione (a eccezione di Caltanissetta, chiusa per problemi strutturali emersi già prima dall’emergenza), mentre altre – come Gradisca d’Isonzo e Macomer – sono al massimo della loro capienza. Problemi di affollamento si riscontrano anche negli hotspot di Pozzallo, Messina e Lampedusa. In quest’ultimo, in particolare, il garante segnala un «processo endless […] lontano dall’essere accettabile», ovvero un isolamento a tempo indefinito, per cui a ogni nuovo ingresso il conto dei giorni di quarantena è azzerato e ricomincia a decorrere per tutti, anche per le persone già presenti da tempo nella struttura. Infine, dopo il primo caso ufficiale di Covid-19 positivo nel Cpr di Gradisca d’Isonzo il 26 marzo 2020, il Garante conferma altri quattro casi sempre in Friuli: stando al comunicato, quattro di essi sono in isolamento nel Cpr, mentre uno è ricoverato in ospedale. 

In assenza di misure specifiche, il decongestionamento dei Cpr è stato così demandato alla sensibilità degli organi giurisdizionali competenti. Il Tribunale di Roma è stato quello che per primo e con maggior attenzione ha affrontato la questione, rigettando le richieste di convalida e di proroga del trattenimento dei richiedenti asilo avanzate dalla Questura di Roma alla luce dell’emergenza sanitaria in corso. Il Tribunale ha ribadito, infatti, che l’impossibilità di eseguire i rimpatri, a causa dell’interruzione dei collegamenti aerei con l’Italia, fa venir meno la funzione stessa del trattenimento, così come delineata dalla Direttiva Rimpatri. Ma soprattutto, secondo i giudici di Roma «l’emergenza sanitaria in atto – considerato che la privazione della libertà personale in spazi ristretti renderebbe difficoltoso garantire le misure previste a garanzia della salute dei singoli – impone di interpretare tutte le norme in materia in termini restrittivi, dovendosi operare un bilanciamento tra tali norme e il diritto alla salute costituzionalmente e convenzionalmente garantito ad ogni persona comunque presente sul territorio (art. 2 TUI)». Nel quadro attuale, quindi, secondo il Tribunale di Roma, è la stessa condizione di restrizione della libertà personale nei centri di rimpatrio a essere inconciliabile con la garanzia del diritto alla salute. Un diritto universale, riconosciuto ai migranti a prescindere dalla regolarità del soggiorno e che deve prevalere sulle ragioni di polizia che fondano il trattenimento.  

Come abbiamo scritto altrove, le considerazioni del Tribunale di Roma sulla condizione dei migranti nei Cpr possono essere estese anche per coloro che si trovano nei centri di accoglienza straordinaria (CAS) o negli hotspot, trasformati di fatto in centri chiusi a seguito delle misure di isolamento sociale. Allo stesso modo, riflessioni analoghe non possono che riguardare anche le persone soccorse in mare dalla Aita Mari, detenute di fatto su una nave in rada di fronte a Palermo in quello che appare un revival della politica dei “porti chiusi” offerto dall’emergenza. E ancora, come non pensare ai braccianti migranti costretti nella tendopoli di San Ferdinando controllata dalla polizia, a cui il cibo viene consegnato attraverso le sbarre di un cancello chiuso. Si tratta di esempi certamente diversi fra loro che consentono però di mettere a tema come le stesse misure di distanziamento sociale, adottate per tutelare la salute della maggior parte delle persone, per altre si riflettano in un’ulteriore compressione dei diritti fondamentali in ragione del solo status personae.  

In queste settimane in cui siamo stati costretti a restare a casa, invitati a cooperare con misure di restrizione drastica delle libertà e dei diritti democratici per senso di responsabilità verso se stessi e i soggetti più vulnerabili, la situazione dei migranti confinati in questi luoghi per decisione dell’autorità disvela tutta l’ambivalenza dell’appartenenza. Se da un lato la pandemia illumina la stretta relazione tra mobilità (e immobilità) e tutela di sé stessi e degli altri, dall’altro, entra in crisi l’idea di poter legittimamente confinare, recludere e imprigionare i migranti in base alla loro condizione giuridica personale. Il trattenimento – nelle sue molteplici forme – mostra la sua natura di violenza istituzionale, espressione di un potere repressivo della mobilità umana e dell’eccesso di libertà che il suo esercizio sempre incorpora.  

In un’intervista realizzata per Pandemie locali – un progetto collettivo cui partecipo con le mie compagne di quarantena – Giovanna Del Giudice, psichiatra protagonista del processo basagliano di deistituzionalizzazione del sistema italiano di salute mentale, enfatizza la capacità della pandemia di esplodere le contraddizioni sottese all’organizzazione della nostra società e, tra queste, la situazione delle «istituzioni totali dell’attualità»[2]. Del Giudice traccia quindi un filo diretto tra istituzioni molto diverse – case di riposo e RSA, carceri, Cpr e centri di accoglienza – ma accomunate da elementi comuni: la rigida organizzazione della vita all’interno; la separazione fisica e simbolica dal resto della società sana, normale e normativa; l’esercizio di una violenza istituzionale che si esprime nella coartazione della libertà personale e in pratiche coercitive – come la contenzione – che si intensificano nell’emergenza (ancora, il divieto dei telefoni cellulari…).  

Ponte Galeria – Infoaut

Cpr, hotspot, CAS, tendopoli ma anche carceri, REMS e case di cura per anziani sono solo alcune delle «istituzioni totali dell’attualità» di cui la pandemia sta rivelando tutte le insostenibili contraddizioni. Luoghi istituzionali prodotti dalle politiche di confinamento della mobilità, di emarginazione dell’alterità e della devianza non produttive che contribuiscono a riprodurre quotidianamente l’organizzazione gerarchica della società. Ripensare e attualizzare il concetto di istituzioni totali in questa situazione, rompendo per esempio la distinzione di senso e valore tra Cpr e RSA, come suggerito da Giovanna Del Giudice e ben argomentato qui da Agnese Bai, non è solo un esercizio teorico. Rappresenta invece un esercizio pratico, utile a cogliere l’opportunità, che l’esperienza pandemica ci offre, nel restituire centralità a questioni a lungo trascurate, per metterle in connessione e costruire nuove possibilità di trasformazione. A poco più di quarant’anni dalla chiusura dei manicomi, è forse l’occasione per rilanciare la lotta per chiudere le «istituzioni totali dell’attualità», per abbattere le mura e scardinare l’impalcatura valoriale, discorsiva e normativa che sorregge questi luoghi. D’altro canto, rispetto ai Cpr, il percorso è già tracciato da decenni di lotte radicali delle e dei migranti trattenuti. 

[1] Il tema è analizzato a fondo in F. Asta, C. Caprioglio, Per giusta decisione. Riflessioni sul controllo giurisdizionale del trattenimento degli stranieri, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, 2017, 553-573.

[2] Del Giudice fa riferimento al concetto di “istituzioni totali” di Ervin Goffman, sviluppato in Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino, Einaudi, 2010.

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