«Non si dovrebbe mai dare un “noi” per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri».
[S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, 2003]
Ma chi siamo noi? E chi sono gli altri? Che cosa ci divide? Si può guardare il dolore, di chiunque esso sia, e non esserne partecipi? Ed oltre il dolore, almeno al cospetto della morte, si è davvero tutti uguali?
Quello di Francisco Cantù è un racconto che fa male, che affonda come una lama nella carne. Ma è tanto doloroso quanto necessario. Necessario per capire, al di là della superficie, la “verità”, ciò che realmente accade lungo il confine tra Messico e Stati Uniti, uno dei più “caldi” al mondo. L’opera di Cantù ha il pregio, enorme, di rendere visibile un fenomeno “invisibile”, tanto astratto e remoto da essere percepito da molta opinione pubblica, anche per precise responsabilità della politica e della retorica di certi commentatori, come un “non-luogo”. Se non lo si vede, non lo si tocca, se non si sente l’odore di morte, se non si osserva la disperazione di chi fugge dalla sofferenza e da vite miserabili, quel luogo non esiste. Un fenomeno invisibile fatto di attori invisibili. Letteralmente, in alcuni casi. Ma questo lo vedremo più avanti.
L’autore di Solo un fiume a separarci. Dispacci dalla frontiera ci racconta di tutto ciò che il confine implica ma che mai – ci si guardi dall’edulcorare la pillola: mai – viene raccontato, di come la frontiera viene percepita, da nord e da sud, da chi sa, per le ragioni più disparate, che quel confine è più di una semplice linea disegnata da diplomatici e burocrati intorno alla metà dell’800. Ci racconta del significato di quel luogo, dell’umanità che vi gravita attorno e delle sofferenze cui è sottoposta. Ci parla dell’essenza profonda ed intrinseca di un confine che non divide solo due Stati: separa due mondi; e lo fa sotto l’egida di istituzioni insensibili al dolore e alle sofferenze. Che, anzi, lo cagionano quel dolore. Tutto ciò, Cantù ce lo presenta da un punto di osservazione insolito, privilegiato. O, al contrario, libero – finalmente, dovremmo aggiungere – da ogni forma di “privilegio”. Sono infatti determinate forme di privilegio – il punto di vista dello studioso, del giornalista, del politico – a rappresentare il più insormontabile e subdolo degli ostacoli alla comprensione vera, asciutta ed essenziale di fenomeni complessi. E la frontiera, quella frontiera, è un fenomeno di grande complessità. Una complessità che non la si può afferrare, risolvere, servendosi della sola teoria.
Francisco Cantù è nato e cresciuto in Arizona, «a circa 5 ore dal confine: abbastanza lontano perché esso non fosse un pensiero costante […], ma abbastanza vicino perché non si trattasse di un concetto astratto» (Grasso, 2019). Francisco ha voluto eliminare ogni forma di astrazione, il confine ha voluto viverlo, vederlo coi propri occhi, senza mediazioni, da vicino. Per questa ragione, dopo aver studiato relazioni internazionali all’università, approfondendo ogni aspetto teorico relativo al confine, ha voluto osservare sul campo quanto stesse accadendo laggiù. È così che è entrato a far parte della Migra, la polizia di frontiera.
I primi due dei tre capitoli riguardano l’esperienza di Francisco sul campo, prima come poliziotto, poi nell’intelligence. E ci descrivono un paesaggio desertico, ostile, esso stesso, insieme al controllo esercitato dalle istituzioni, confine, frontiera. Barriera. Una barriera geografica – che precede ogni muro – che, sotto il velo del suo silenzio, della sua immobilità, pare far riecheggiare il dolore di disperazione nella voce di migliaia di donne, uomini e bambini che, ogni giorno, provano, sfidando
gli elementi, la sordità di quelle istituzioni e finanche la morte, a raggiungere gli Stati Uniti. Non solo dal Messico, ma da ogni parte dell’America Centrale, in fuga dalla povertà, dalle “narcoguerre” e dei cartelli della droga.
Il deserto è il paesaggio geografico della frontiera. È l’asprezza di luoghi che non perdonano, luoghi di paura, di una fatica tanto immane da indurre dolore e morte. È il luogo dove ogni giorno migliaia di corpi inermi soccombono di fronte alla potenza della natura. Ma è anche il teatro della crudeltà di uno Stato che esercita il potere del rifiuto, dell’abbandono, del respingimento, della coercizione e della violenza. La Border Patrol è il braccio operativo di quello Stato e di quella crudeltà. E Francisco, entrandovi a far parte, diviene pure lui, all’opposto dei suoi intenti, un ingranaggio di quel meccanismo mortale.
«Hai trascorso quasi quattro anni sul confine. E non stavi soltanto osservando una realtà, tu le stavi dando forma. Non si può essere inseriti in un sistema così a lungo senza diventarne parte, senza assorbire il suo veleno. E, lascia che te lo dica, non è qualcosa che svanirà col tempo. E’ parte dell’uomo che sei diventato» (Cantù, 2019, p. 227). Con queste parole la madre di Cantù, la cui voce accompagna Francisco lungo tutta la storia, quasi come fosse la sua coscienza, mette l’accento su un aspetto particolarmente rilevante, che, anziché darci una visione più chiara del problema di fondo, ci induce a porci ulteriori domande: in che misura può un individuo opporsi ad un sistema, al potere costituito? Quanto possono incidere le azioni individuali di chi sceglie di stare dentro ad una istituzione (Stato, polizia, ecc.) sugli effetti che quella istituzione produce sulla collettività? Quanti – moltissimi verrebbe da supporre -, a differenza di Francisco, finirebbero per smarrirsi del tutto dentro quell’ingranaggio?
Arrivando al cuore della riflessione: chi sono gli invisibili? C’è differenza tra ultimi ed invisibili?
Nella vasta platea degli ultimi vi sono certamente le migliaia di persone che ogni giorno provano ad attraversare il confine. Non solo il confine di cui parla Cantù. Nel nostro immaginario collettivo di europei, il Mediterraneo è il deserto o il Rio Grande di Cantù, il Vecchio Continente sta al posto dell’America; in questo scenario, il mare, un altro elemento della natura di straordinaria potenza, è anch’esso una “barriera”, e anch’esso separa fisicamente due mondi. Ultimi, come i migrantes di Solo un fiume a separarci, sono coloro i quali, per disperazione, in fuga da realtà terribili di guerra, povertà e carestie, guidati dall’anelito ad una vita migliore, si imbarcano in condizioni disperate per provare a raggiungere l’Europa. Incontrando, talvolta, la morte.
Tra gli ultimi troviamo certamente Josè, protagonista della terza parte del libro, clandestino, amico di Francisco, incontrato dopo che quest’ultimo aveva chiuso la propria esperienza nella polizia ed aveva trovato impiego in una caffetteria. Un uomo che le istituzioni hanno separato dai propri cari e dalla famiglia rimasta negli Stati Uniti, dopo che questi aveva fatto ritorno dalla madre per l’estremo saluto.
L’invisibilità è una categoria che coglie all’essenza lo status di chi è ancora più ultimo degli ultimi: ultimi lo si è tra coloro che possono essere contati. Essere invisibili può significare non avere neppure un nome.
In Antígona Gonzàlez, come ci ricorda Cantù, Sara Uribe (Uribe, 2016) scrive:
Contateli tutti.
Nominateli, per dire: questo corpo potrebbe essere il mio.
Il corpo di uno dei miei cari.
Per non dimenticare che tutti i cadaveri senza nome sono
i nostri corpi perduti.
I corpi di migranti senza nome. Essi rappresentano la quintessenza dell’invisibilità. Abdelmalek Sayad (Sayad, 2019, p. 107) ci dice che:
questi morti non identificati e non identificabili – non si sa nulla di loro, nulla dei loro avi, né della loro discendenza, se ne hanno avuta una, niente della loro origine e del loro gruppo di appartenenza, niente della loro vita e della loro morte – sono come dei morti dietro i quali si nascondono sempre, secondo la tradizione araba del Maghreb […], un angelo e un demone.
Un angelo e un demone. Sia che si assuma il punto di vista del giovane Cantù, studioso del confine che si arruola nella polizia di frontiera per vedere quella frontiera da vicino, per capirla, per essere prossimo a quella gente alla quale vorrebbe offrire aiuto e conforto, ma anche per comprendere se ci si possa misurare con un sistema «senza diventarne parte, senza assorbire il suo veleno» (Cantù, 2019, p. 227), sia che si prenda in esame il tema del confine dalla prospettiva del prodotto finito dell’azione delle istituzioni che quel confine presidiano, cioè il respingimento ad ogni costo, anche della morte, tutto quanto è una questione di angeli e demoni.
Raccontandoci la sua storia, i suoi incubi, i demoni che lo hanno tormentato per anni, e che probabilmente ancora lo tormentano, raccontandoci ciò che ha visto coi suoi occhi, i volti, le parole dei migranti, le loro speranze, le paure, gli spettri del loro passato, Francisco Cantù riesce almeno ora, a distanza di qualche anno dai fatti narrati, con questo libro che sfugge ad ogni tentativo di categorizzazione – non è saggio, ma è anche saggio; non è narrativa ma, in fondo, è anche un po’ romanzo -, ad esplorare, e soprattutto a restituire, l’elemento umano – non solo i sentimenti, l’interiorità, ma anche la corporalità: in fondo insieme alle anime sono i corpi a varcare il confine.
«“Ce l’hanno spesso gli eritrei, ma anche gli altri… sono sacchettini della loro terra che si portano dietro”. Ancora oggi quando ci penso mi commuove l’idea di quel gesto così semplice e comune di portare con sé un ricordo fisico di qualcosa di caro quando si parte per andare lontano» (Cattaneo, 2018, p. 71). Con queste parole Cristina Cattaneo, nel suo Naufraghi senza volto, parlando di uno dei migranti deceduti nel naufragio del Canale di Sicilia dell’aprile 2015, ci dice di come ciascuno, nell’atto di viaggiare, di migrare, in quello di attraversare, porti sempre con sé un po’ di ciò che era, dei luoghi dai quali proviene.
Cantù, con Solo un fiume a separarci, ci porta molto di sé, della sua esperienza sul campo e di ciò che ha visto. Mostrandoci le proprie “cicatrici”, ci racconta della cecità e della sordità di certe istituzioni e ci parla del concetto di eguaglianza, di come, in certe parti del globo, di eguaglianza non ve ne sia alcuna, di fronte al dolore ma, per tornare ad una delle domande di apertura, nemmeno davanti alla morte.
Solo un fiume a separarci. Dispacci dalla frontiera, di Francisco Cantù, tradotto in italiano da Fabrizio Coppola, è stato pubblicato nel 2019 da Edizioni minimum fax
BIBLIOGRAFIA
Cattaneo C. (2018). Naufraghi senza volto. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Grasso G. (2019). Dispacci dalla frontiera. Q Code Magazine (https://www.qcodemag.it/mondo/americhe/dispacci-dalla-frontiera/).
Sayad A. (2019). Morti senza spazio e senza tempo. In Salvador O., Denunzio F., Morti senza
sepoltura. Tra processi migratori e narrativa neocoloniale. Verona: Ombre Corte.
Sontag S. (2003). Davanti al dolore degli altri. Milano: Mondadori.
Uribe S. (2016). Antígona Gonzàlez. Los Angeles: Les Figues Press